Cento anni fa nasceva la lanfranchi
pubblicato il: 06/03/1987
da: La voce di palazzolo
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Cento
anni fa nasceva la Lanfranchi

Nella relazione «PALAZZOLO 1890» parlando delle
fabbriche di bottoni, il sindaco Ricci, scrisse: «La terza fabbrica di bottoni
è piccolo e non esercita che soli due anni circa. Essa del resto riveste la sua
importanza dall'essere stata iniziata da un semplice operaio in bottoni, che
incominciò in piccolo per proprio conto ed in casa propria, e che ora unitosi
in società costituendo la ditta Lanfranchi e Corridori, va lentamente si, ma
progredendo... Gli operai, tra maschi e femmine sono 22 e la produzione media p
di 26.000 grosse di bottoni vegetali».

Chi era questo «semplice operaio» che cento anni fa
decideva di metter su una fabbrica di bottoni?

Era Giovanni
Lanfranchi, nonno degli attuali Lanfranchi, che, sempre sotto lo stesso
nome, producono non più bottoni, ma cerniere «Lampo» a Palazzolo.

Nato a Castelcovati nel 1854 da Gaetano e da Vailati
Angelina, il nostro Giovanni è uno dei dieci fratelli, cinque maschi e cinque
femmine, della numerosa famiglia che vive col lavoro di tintore del padre
Gaetano: egli verso 1868 arriva a Palazzolo, dove apre un laboratorio di tintoria
e stampa di tessuti nel sotterraneo del Palazzo Ducati, ora Marzoli.

I figli crescono e man mano si sistemano: alcuni a
Palazzolo, altri emigrano a Parigi o in America.

Il Giovanni viene assunto dal bottonificio Taccini e
ben presto diventa capo del reparto foratori. Le sue capacità e conoscenze
tecniche vengono poi messe a frutto nel nuovo bottonificio che Clearco Sala
apre in località Passerera, fra Telgate
e Chiuduno, dove egli si trasferisce.

E a Telgate, presso l'osteria «Speranza» conosce la
signora Colomba Tinti, che diventerà sua moglie nel 1882.

Per farlo tornare a lavorare a Palazzolo, la nuova
ditta Nessi e Cella, gli offre, oltre alla paga, l'alloggio per la nuova famiglia,
che va ad abitare in via SS. Trinità (casa Schiavardi) dove nel 1883 nasce il
primogenito Paolo Gentile.

Passano tre anni e nel 1887 il Lanfranchi decide di
mettersi da solo e nel piccolo locale, dove oggi c'è il ciclista, nasce la
nuova impresa che, con l'apporto successivo del Corridori, impiegato di banca,
prenderà il nome di G. Lanfranchi e C.

Non
potendo avere a disposizione energia idraulica necessaria a muovere i
«borloni», si utilizzava un piccolo salto d'acqua vicino al Tiro al Bersaglio,
dove in un capanno girava il «borlone» per lucidare i bottoni.

Come si può leggere nei documenti conservati
nell'archivio Lanfranchi, la «quindicina» 25 dicembre 87, 7 gennaio 88 era
pagata per L. 165,05 a: Lancini e Freri 28,50 – Rossi e Piantoni 22,45 –
Lanfranchi Giuseppe 35,50 – Pezzoni Angelo 6 – Piantoni Angelo 1,70 – Begni
Pietro 3 – Malnati Carlo 28,20 – Lanfranchi Giovanni 50.

Sei
mesi dopo i percettori erano saliti a 16 e la paga alla somma di L. 283,85.

La
mancanza di una fonte di energia costringe la neonata impresa a trasferirsi nel
1889 nei locali Costatoro, oggi casa Antonioli; dove si poteva sfruttare un
salto d'acqua.

Ma
anche questa sarà un sistemazione transitoria: infatti nel 1891 la Lanfranchi
acquista da G.B. Consonni il vecchio filatoio Cicogna in contrada delle Tezze,
con relativi diritto ad utilizzare l'acqua del canale Carvasaglio per muovere
una grande ruota che trasmetteva il suo movimento anche ai torni e alla sega
circolare.

Anche
la vecchia e sgangherata ruota di legno viene sostituita con una più moderna in
ferro del diametro di circa sei metri fornita da una ditta di Bergamo.

A
proposito di questa ruota ecco a cosa scrive P. Gentile, primogenito del
Giovanni:

Specie
di notte quando saltavo una cinghia dei borloni, ed essi si fermavano, la ruota
si metteva a girare vertiginosamente da far paura ed allora al grido di «scapa
la röda» si doveva correre, a tirare su la «ciaega» e a far scorrere l'acqua
del canale. Inoltre succedeva anche questo: se un bastone passava dalla
ferriata prima della ruota e si metteva sotto lo spigolo di una pala, la
ruota  si fermava ed anche in questo caso
bisogna essere pronti, anche di notte, ad alzare la paratoia. Nella stagione
rigida, quando gelava, se la ruota si lasciava ferma, si bloccava per il
ghiaccio. Era necessario staccarlo col martello e ripassarla tutta...».

Nella
sala maggiore, al piano terreno ― sempre secondo gli appunti di P. Gentili ― si
trovava «un banco con una sega circolare e quattro torni, comandati dalla
ruota; di fronte altri bancotti spostabili con volano di legno sotto pedale per
la foratura: sul lato verso la casa civili un lungo banco per altri quattro
torni con volani più grandi attaccati al soffitto e pedali sotto il banco.

Lo
sforzo a gamba per la tornitura non era eccessivo, dato che il momento della
tornitura era sopportato dal volano. Se il tutto era ben oliato, era come far
funzionare una macchina da cucire. Naturalmente saremmo al di sotto dei mille
giri in confronto coi quattro-cinque mile attuali. La sega invece era più dura
e senza la forza dell'acqua, veniva azionata da un secondo uomo staccato con
volano a manovella come nei torchi per la pasta di una volta.

Gli
operai ai torni guadagnavano dalle due alle tre lire al giorno per lavoro a
cottimo(sette centesimi la grossa per la coppia).

La
tintoria era sbrigata da mio padre con due rudimentali fornelli a legna. La
confezione era al primo piano con tre tavoli per le cucitrici ed altri per la
spedizione. La cucitura era anch'essa a cottimo: tre centesimi la grossa».

Nel
1896 viene introdotta l'energia elettrica concessa dalla Mulini Urini, che
aveva una centrale di produzione a Capriolo ed i metodi di produzione subiscono
cambiamenti radicali.

Nel
1899 il socio Corridori si ritira e il nostro Giovanni, coi figli P. Gentile e
Angelo, che aveva appena finito le scuole tecniche a Brescia, si trova a
gestire un bottonificio, con 50 dipendenti.

Improvvisamente il 19 settembre 1903, mentre è in
casa dell'amico Antonio Schivardi, Giovanni Lanfranchi muore per emorragia cerebrale;
lascia vedova e sei figli (altri due erano morti in tenerissima età) il primo
Gentile di vent'anni e l'ultimo Gaetano di appena due anni.

La
Voce di Palazzolo, 6 marzo 1987

Cento
anni fa nasceva la Lanfranchi





Nella relazione «PALAZZOLO 1890» parlando delle
fabbriche di bottoni, il sindaco Ricci, scrisse: «La terza fabbrica di bottoni
è piccolo e non esercita che soli due anni circa. Essa del resto riveste la sua
importanza dall’essere stata iniziata da un semplice operaio in bottoni, che
incominciò in piccolo per proprio conto ed in casa propria, e che ora unitosi
in società costituendo la ditta Lanfranchi e Corridori, va lentamente si, ma
progredendo... Gli operai, tra maschi e femmine sono 22 e la produzione media p
di 26.000 grosse di bottoni vegetali».



 



Chi era questo «semplice operaio» che cento anni fa
decideva di metter su una fabbrica di bottoni?



Era Giovanni
Lanfranchi,
nonno degli attuali Lanfranchi, che, sempre sotto lo stesso
nome, producono non più bottoni, ma cerniere «Lampo» a Palazzolo.



Nato a Castelcovati nel 1854 da Gaetano e da Vailati
Angelina, il nostro Giovanni è uno dei dieci fratelli, cinque maschi e cinque
femmine, della numerosa famiglia che vive col lavoro di tintore del padre
Gaetano: egli verso 1868 arriva a Palazzolo, dove apre un laboratorio di tintoria
e stampa di tessuti nel sotterraneo del Palazzo Ducati, ora Marzoli.



I figli crescono e man mano si sistemano: alcuni a
Palazzolo, altri emigrano a Parigi o in America.



Il Giovanni viene assunto dal bottonificio Taccini e
ben presto diventa capo del reparto foratori. Le sue capacità e conoscenze
tecniche vengono poi messe a frutto nel nuovo bottonificio che Clearco Sala
apre in località Passerera, fra Telgate 
e Chiuduno, dove egli si trasferisce.



E a Telgate, presso l’osteria «Speranza» conosce la
signora Colomba Tinti, che diventerà sua moglie nel 1882.



Per farlo tornare a lavorare a Palazzolo, la nuova
ditta Nessi e Cella, gli offre, oltre alla paga, l’alloggio per la nuova famiglia,
che va ad abitare in via SS. Trinità (casa Schiavardi) dove nel 1883 nasce il
primogenito Paolo Gentile.



Passano tre anni e nel 1887 il Lanfranchi decide di
mettersi da solo e nel piccolo locale, dove oggi c’è il ciclista, nasce la
nuova impresa che, con l’apporto successivo del Corridori, impiegato di banca,
prenderà il nome di G. Lanfranchi e C.



Non
potendo avere a disposizione energia idraulica necessaria a muovere i
«borloni», si utilizzava un piccolo salto d’acqua vicino al Tiro al Bersaglio,
dove in un capanno girava il «borlone» per lucidare i bottoni.



Come si può leggere nei documenti conservati
nell’archivio Lanfranchi, la «quindicina» 25 dicembre 87, 7 gennaio 88 era
pagata per L. 165,05 a: Lancini e Freri 28,50 – Rossi e Piantoni 22,45 –
Lanfranchi Giuseppe 35,50 – Pezzoni Angelo 6 – Piantoni Angelo 1,70 – Begni
Pietro 3 – Malnati Carlo 28,20 – Lanfranchi Giovanni 50.



Sei
mesi dopo i percettori erano saliti a 16 e la paga alla somma di L. 283,85.



La
mancanza di una fonte di energia costringe la neonata impresa a trasferirsi nel
1889 nei locali Costatoro, oggi casa Antonioli; dove si poteva sfruttare un
salto d’acqua.



Ma
anche questa sarà un sistemazione transitoria: infatti nel 1891 la Lanfranchi
acquista da G.B. Consonni il vecchio filatoio Cicogna in contrada delle Tezze,
con relativi diritto ad utilizzare l’acqua del canale Carvasaglio per muovere
una grande ruota che trasmetteva il suo movimento anche ai torni e alla sega
circolare.



Anche
la vecchia e sgangherata ruota di legno viene sostituita con una più moderna in
ferro del diametro di circa sei metri fornita da una ditta di Bergamo.



A
proposito di questa ruota ecco a cosa scrive P. Gentile, primogenito del
Giovanni:



Specie
di notte quando saltavo una cinghia dei borloni, ed essi si fermavano, la ruota
si metteva a girare vertiginosamente da far paura ed allora al grido di «scapa
la röda» si doveva correre, a tirare su la «ciaega» e a far scorrere l’acqua
del canale. Inoltre succedeva anche questo: se un bastone passava dalla
ferriata prima della ruota e si metteva sotto lo spigolo di una pala, la
ruota  si fermava ed anche in questo caso
bisogna essere pronti, anche di notte, ad alzare la paratoia. Nella stagione
rigida, quando gelava, se la ruota si lasciava ferma, si bloccava per il
ghiaccio. Era necessario staccarlo col martello e ripassarla tutta…».



Nella
sala maggiore, al piano terreno ― sempre secondo gli appunti di P. Gentili ― si
trovava «un banco con una sega circolare e quattro torni, comandati dalla
ruota; di fronte altri bancotti spostabili con volano di legno sotto pedale per
la foratura: sul lato verso la casa civili un lungo banco per altri quattro
torni con volani più grandi attaccati al soffitto e pedali sotto il banco.



Lo
sforzo a gamba per la tornitura non era eccessivo, dato che il momento della
tornitura era sopportato dal volano. Se il tutto era ben oliato, era come far
funzionare una macchina da cucire. Naturalmente saremmo al di sotto dei mille
giri in confronto coi quattro-cinque mile attuali. La sega invece era più dura
e senza la forza dell’acqua, veniva azionata da un secondo uomo staccato con
volano a manovella come nei torchi per la pasta di una volta.



 



Gli
operai ai torni guadagnavano dalle due alle tre lire al giorno per lavoro a
cottimo(sette centesimi la grossa per la coppia).



La
tintoria era sbrigata da mio padre con due rudimentali fornelli a legna. La
confezione era al primo piano con tre tavoli per le cucitrici ed altri per la
spedizione. La cucitura era anch’essa a cottimo: tre centesimi la grossa».



Nel
1896 viene introdotta l’energia elettrica concessa dalla Mulini Urini, che
aveva una centrale di produzione a Capriolo ed i metodi di produzione subiscono
cambiamenti radicali.



 



Nel
1899 il socio Corridori si ritira e il nostro Giovanni, coi figli P. Gentile e
Angelo, che aveva appena finito le scuole tecniche a Brescia, si trova a
gestire un bottonificio, con 50 dipendenti.



Improvvisamente il 19 settembre 1903, mentre è in
casa dell’amico Antonio Schivardi, Giovanni Lanfranchi muore per emorragia cerebrale;
lascia vedova e sei figli (altri due erano morti in tenerissima età) il primo
Gentile di vent’anni e l’ultimo Gaetano di appena due anni.



La
Voce di Palazzolo, 6 marzo 1987