Ricordo di nomadelfia
pubblicato il: 21/05/2010
da: La voce di palazzolo
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Ricordo di Nomadelfia

 

Era appena finita la guerra, la vita oratoriana era ripresa alla grande. Anche le associazioni cattoliche registravano numerosi iscritti.

L’assistente propose una gita per catechisti ed assistenti, prima che iniziassero le lezioni domenicali per i frequentanti San Sebastiano.

Era una domenica piovosa. Noi eravamo ansiosi di andare verso Carpi, in un ex campo di concentramento, a Fossoli, per vedere di persona come fosse possibile vivere la fraternità cristiana dopo gli orrori della guerra.

Un campo di concentramento è facile immaginarlo o descriverlo oggi dopo aver visitato Auschwitz, e aver partecipato a lezioni di approfondimento sul problema dell’Olocausto. Ma nel ’48 tutto ciò non faceva parte della nostra cultura di giovinetti dell’oratorio.

In campagna, circondato dai reticolati ormai cadenti, si allineavano i fabbricati a un piano:una serie di costruzioni uguali ed anonime. Arrivarci, poi, sotto l’acqua in una mattina di ottobre, non disponeva l’animo a cosa belle.

Eppure appena entrammo, a piccoli gruppi, in una di questa casette fredde e disadorne, ci trovammo di fronte delle famiglie strane , ma vere. Ci venne incontro una mamma, che portava in grembo un bimbo e teneva in braccio e per mano altri due fanciulli. Eravamo così persi che non ci azzardammo a fare domande. Tutto si svolse con sorrisi e strette di mano molto fraterne.

C’erano altre madri ” per vocazione” che non avevano generato, ma che vivevano l’esperienza di una famiglia.

Chi ci aiutò a capire il senso profondo di Nomadelfia, così si chiamava quella comunità, fu don Zeno.

Un prete di frontiera, come si dice oggi. Ma, allora, assolutamente fuori dell’ordinario. Senza fronzoli, con aderenza alla realtà in cui stavamo per confrontarci, ci raccontò di un’esperienza che da anni andava conducendo per sottrarre i bambini orfani, sbandati, senza famiglia, all’abbandono.

Affidarsi alla Provvidenza e operare il bene senza limiti, senza convenzioni, sfidando anche il perbenismo dei cristiani, che non riuscivano a sottrarsi ai vincoli delle consuetudini e delle convenzioni sociali.

Ognuno di noi aveva portato un’offerta per quei bambini e le loro mamme.

Ci sentivamo scossi da questo prete, che praticava un cristianesimo di frontiera, dove le parole diventavano vissuto quotidiano.

Mamme vere che avevano accettato, per vocazione, di allevare ed educare nel loro nido anche figli non generati ma accolti in nome di Gesù “lasciate che i pargoli vengano a me!”. Un volontariato, parola allora sconosciuta per noi che avevamo visto gli egoismi della guerra e del dopoguerra, estremo. Perdere la propria vita per gli altri. Essere tutti figli di Dio, fratelli in Gesù, dividere il poco o nulla che c’era, ma alimentare la speranza di salvare piccoli soli, abbandonati, orfani, senza casa e senza famiglia. Farne degli uomini che mettevano insieme tutto: gioie, dolori, privazioni, pane, incomprensioni: uno scandalo per i benpensanti.

Don Zeno ci parve fin d’allora un Santo, come lo fu poi e lo è ora.

Nomadelfia ha lasciato in noi un ricordo incancellabile. Oggi ci fa piacere parlarne.

Miriam e Francesco Ghidotti

La Voce di Palazzolo,21 maggio 2010